martedì 6 dicembre 2016

la Costituzione non c'entra


Abbiamo passato gli ultimi mesi a dire che la nostra non è la più bella Costituzione del mondo (o che magari lo è ma nessuno si è degnato di spiegarci il perché con un’analisi comparata di tutte le altre costituzioni del mondo). Abbiamo cercato di spiegare che la retorica della sacralità del testo costituzionale scritto col sangue dei partigiani altro non è che una retorica malsana se deve implicare il divieto di apportare qualsiasi modifica anche marginale a quel testo o in quegli aspetti che si sono rivelati, col tempo, obsoleti o poco utili. Una retorica funzionale appunto al mantenimento dello status quo e alla conservazione di vecchie logiche di potere. 

Forse è il momento di fare una confessione: se è vero che la Costituzione non è intoccabile è anche vero che non c’era, in realtà, nessuna urgenza di cambiarla, ha funzionato per settant’anni e possiamo benissimo tenercela com’è per qualche altro decennio. Intendiamoci: ho votato nel merito o almeno ho cercato di farlo, credo davvero che il bicameralismo paritario sia un difetto del nostro sistema istituzionale, credo nell’opportunità di razionalizzare la divisione delle competenze fra Stato e regioni, credo che il Cnel non serva a un granché, credo insomma che la riforma sarebbe stata migliorativa rispetto all’esistente. C’è una cosa però che gli elettori del no hanno capito e per la quale non hanno voluto fidarsi: i promotori della riforma stavano cercando, soprattutto, di venderci qualcos’altro. 

Renzi ha cercato di vendere, com’è naturale, soprattutto se stesso. Col senno di poi è abbastanza facile sostenere che abbia sbagliato a legare il suo destino politico a una riforma percepita appunto come non strettamente necessaria. Qualcuno addossa le responsabilità all’ex presidente Napolitano che nell’accettare il suo inedito e sorprendente secondo mandato ha voluto imprimere una svolta riformista a un sistema che si era rivelato incapace persino di eleggere un presidente (quindi sull’onda di una certa emotività), e ha messo questo fardello sulle spalle del giovane Renzi. In realtà questo compito Renzi se lo è addossato fin troppo volentieri, tanto che è difficile stabilire chi abbia approfittato di chi. Il fatto è che la sfida riformistica, l’aumentare continuamente la posta in gioco proiettandosi sempre in avanti, fanno essenzialmente parte dell’idea-Renzi, egli non sarebbe se stesso se si fosse tirato indietro o avesse lasciato la riforma costituzionale a deperire lentamente fra i banchi del Parlamento. 

Renzi ha voluto vendere, tramite se stesso, una speranza di riscatto per una socialdemocrazia che in Europa e nel mondo si trova sempre più in crisi, ha voluto vendere fiducia nel futuro e ottimismo, ha voluto illuderci che la catastrofe non è un destino ineluttabile. In questo senso il suo fallimento è molto più grave del non essere riuscito a cambiare qualche articolo della Costituzione. Qualcuno basandosi sul numero di voti sostiene che può contare ancora su un consenso piuttosto forte, forse maggiore di quello di qualsiasi altro leader, il che può essere abbastanza vero ma nasconde la sostanza del fallimento che emerge dall’analisi del voto: Renzi non è riuscito a far breccia proprio fra i principali destinatari del suo messaggio, fra chi aveva maggiormente bisogno di fiducia e ottimismo. Hanno votato contro di lui i giovani che vivono nell’ansia del precariato e della disoccupazione, e le regioni del Sud più povere ed economicamente arretrate. La gravità di questo secondo fallimento risalta tanto più chiaramente se si considera come fosse sostanzialmente corretto il discorso di De Luca che tanto scandalo ha suscitato durante la campagna referendaria: pochi governi hanno investito e dirottato risorse nel Sud come quello renziano. 

Il più grande errore di Renzi, che d’altronde non si sa come avrebbe potuto evitare, è stato pensare di poter mantenere il consenso delle europee. Non che l’azione di governo sia stata negativa, ha avuto i suoi alti e bassi come è nella logica delle cose, ma questo non è certo sufficiente a mantenere vivo un sogno. L’ovvia verità è che governare è più difficile che fare opposizione, visto che i progetti si scontrano sempre con la dura realtà, e onestamente Renzi ce l’ha messa davvero tutta. Non si può dire che abbia puntato tutto unicamente sul referendum vista la sua attività frenetica.  Ha contrastato la politica di austerity promossa dall’Europa e dal precedente governo Monti (che pure era stata necessaria), riuscendo comunque ha contenere il deficit entro livelli accettabili e senza far scattare le famose clausole di salvaguardia, ha battuto i pugni in Europa ottenendo una maggiore influenza del nostro paese e un certo prestigio internazionale, ha fatto politiche di sostegno al reddito (come gli 80 euro e i vari bonus), ha cercato di abbassare la pressione fiscale con misure anche discutibili ma popolari (abolizione delle tasse sulla prima casa), ha creato una bolla di occupazione nel mercato del lavoro introducendo benefici fiscali per chi assume, ha introdotto novità (certo, non a tutti gradite) nel settore della scuola, e si è anche impegnato nel campo dei diritti civili facendo approvare, ponendo la fiducia, una contrastatissima legge sulle unioni gay. 

Tutte queste misure hanno anche avuto una certa efficacia, ma purtroppo sarebbe servito un vero miracolo o una sfacciata fortuna per mantenere il consenso, non una crescita del prodotto interno lordo intorno all'1% e un tasso di disoccupazione sceso di pochi punti percentuali, e certo non è bastato dire "neanche noi siamo soddisfatti, vogliamo di più e lo otterremo". Questo continuo "volere di più" è stata esattamente la ricetta del successo di Renzi, e allo stesso tempo quello che l'ha condotto fatalmente alla fine della sua esperienza di governo (dopotutto nemmeno breve). Questo volere di più implicava il non arrendersi, il non adagiarsi su nessun alloro, andare sempre in cerca di nuovi sogni da propagandare e da vendere, talvolta con modalità di comunicazione che quelle stesse persone che adesso lo rimproverano di essere stato lontano dalle classi popolari hanno giudicato populistiche e demagogiche. Ha comportato anche la sottovalutazione della difficoltà di far approvare la riforma da solo contro tutte le altre forze politiche, dopo la fine dell'accordo con Berlusconi deluso per la presidenza a Mattarella (anche in questo caso, possiamo ben dire che la Costituzione non c'entra). Se c'e stato un momento in cui col senno di poi era opportuno arrestarsi ed evitare di investire tutto nel progetto della riforma costituzionale era quello, ma era anche difficile rendersene conto sulla scia di quello che allora appariva come un trionfo politico (ricordo che persino Chiara Geloni, forse nell'unica occasione della sua vita, ebbe parole di apprezzamento per il Presidente del Consiglio). 

All'analisi della sconfitta dovrebbe convenzionalmente seguire una pars costruens dove si indica la strada da percorrere in modo da ripartire con slancio facendo tesoro degli errori fatti. Io non ho nulla da offrire in questo senso perché ho davvero l'impressione che Renzi fosse un'ultima speranza, l'ultimo tentativo offertoci dalla Provvidenza per evitare una vera deriva autoritaria e populista nel paese. Ovvero, se non è riuscito lui a riconquistare alla politica le anime precedentemente sedotte dalla retorica della rabbia e del vaffanculo non credo che possa riuscirci qualcun altro. Negli ultimi anni abbiamo assistito all'emersione di un problema enorme, che nessuno sa come affrontare. Quello della perdita di confine fra il vero e il falso, del continuo inquinamento dei pozzi dell'informazione dove le bufale le false notizie e i complottismi stanno vincendo. La cosa strana è che non possiamo rimproverare qualcuno in particolare per questi fenomeni, che non sono altro che la democrazia e la cultura di massa che una volta scalzato il monopolio dell'informazione, dell'espressione scritta, della formazione dell'opinione pubblica una volta riservata a un ceto intellettuale selezionato con aristocratico rigore, stanno fagocitando se stesse e autodistruggendosi. Se una volta avevamo timore di un potere assoluto, orwelliano, che riuscisse a manipolare e imporre le sue verità dall'alto, oggi ci troviamo di fronte a qualcosa di peggio, a delle masse instancabili nel produrre in continuazione bufale che nessun potere è in grado di contrastare. Il Movimento 5 Stelle, così come Donald Trump, non sono certo cause ma effetti di questa "cultura del sospetto" che si è imposta (ne abbiamo visto le ultime manifestazioni proprio nel giorno della consultazione referendaria, quando si è scatenata la psicosi delle matite cancellabili). In sintesi, e ripetendo per comodità le parole di Raffaele Alberto Ventura col quale ci troviamo spesso in sintonia, siamo ormai in un mondo dove non si crede più a niente, e di conseguenza si crede a tutto. 

Se Renzi per un certo periodo è sembrato godere di una certa fiducia bisogna ora prendere atto che non è riuscito, da solo, ad arrestare quello che è l'equivalente culturale di un fenomeno geologico al quale nessuna diga o muro può resistere. Il fatto che non ci possa riuscire nessun altro ha come aspetto consolante che il suo destino toccherà anche a quelli che verranno dopo di lui che saranno certamente peggiori. Non possono riuscire ad arginare il fenomeno irrazional-populistico, ovviamente, quelle forze che sono parte del problema, come appunto quella guidata da Beppe Grillo con la sua centrale della disinformazione. Questo, va detto, vale anche per quella sinistra radicale che si pone come alternativa credibile al riformismo moderato per riconquistare il cuore delle masse disagiate, ma in realtà e senza rendersene conto ha la stessa visione paranoica del mondo dei nemici di destra: una visione fatta di banche e poteri forti che tramano nell'ombra per dettare riforme costituzionali ai loro governi-fantocci in modo da perseguire i propri biechi interessi economici depauperando il popolo (laddove la credenza evidentemente è che se le banche sono in buona salute allora il popolo soffre, ma intanto nessuno sa spiegare come potremmo fare a meno delle banche e in che modo la loro rovina dovrebbe aiutare la povera gente). Si tratta, insomma, del vecchio complotto demo-pluto-massonico (e se chi lo spaccia avesse gli attributi forse potrebbe anche completare l'espressione). 

Ma per riprendere il filo del discorso nemmeno un eventuale governo a firma Casaleggio potrebbe resistere a lungo al clima di sfiducia generale alimentata proprio dai suoi organi di informazione. Se nessuno sarà in grado di governare, allora, chi ci governerà? È presto detto: i poteri forti – forti perché impersonali – dell'economia internazionale o dell'Unione Europea (posto che sopravviva) si occuperanno ogni tanto di darci una bella svegliata abbassandoci il rating o alzando lo spread e mettendoci di fronte a una vera emergenza economica da affrontare, magari con un governo tecnico che prenda d'urgenza le misure necessarie. Se la politica non può controllare l'economia come non può controllare nessun altro aspetto della vita sociale diventa inevitabile che sia l'economia a governare la politica e la società. In fin dei conti a me starebbe persino bene: in quanto libertario credo che in realtà la politica non debba nemmeno tentare di controllare l'economia (o gli altri aspetti della vita sociale se è per questo). Avrei solo voluto che la politica ci fosse arrivata da sola, e che la distruzione dello Stato avvenisse in maniera non traumatica, ma forse era un'utopia non realizzabile.

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