giovedì 28 ottobre 2010

magnifiche sorti e progressive



Nel 1950, la percentuale di americani occupati in professioni manageriali e tecniche era del 17%, mentre nel 2000 era quasi il doppio, cioè il 33,5%. Questo significa che nel 1950 certe professioni, sicuramente ambite, appartenevano solo all'élite, e che richiedevano capacità particolari per potervi approdare. Siccome esiste una forte correlazione fra quoziente d'intelligenza e posizione sociale, possiamo essere sicuri che nel 1950 per appartenere a quel 17% di persone occorreva un quoziente intellettivo altrettanto elitario, corrispondente a un punteggio medio di 114.5, e un minimo di 104.

Più alta diventa la percentuale di impiegati in questi settori, meno elitari diventano (com'è ovvio), il che però significa che si abbassa sensibilmente anche il QI richiesto per parteciparvi. La percentuale relativa all'anno 2000, infatti, corrisponde a un QI medio di 110,5 e un minimo di 98. Quattro punti di media in meno rispetto al 1950. La questione è: se i manager di oggi sono meno intelligenti, in media, rispetto a quelli del 1950, significa che fanno peggio il loro lavoro?

In realtà, questo è un modo di porre la questione che fa capire un po' meglio di cosa parliamo quando parliamo di "quoziente d'intelligenza" (argomento che ho già trattato) e che serve da ottima introduzione a quell'affascinante fenomeno che è "l'effetto Flynn". Il punteggio che ottengo in un test di intelligenza non è affatto una misura assoluta delle mie capacità intellettive, ma dice solo come mi colloco rispetto alla popolazione che ha la mia stessa età, se cioè sono nel 2% delle persone coi punteggi più alti (e allora ho diritto di fare parte del club Mensa), o rientro in un più modesto 50%, o addirittura sono sotto la media.

Le persone che sono state testate nel 2000 non possono essere confrontate con quelle testate nel 1950, ovvero non è possibile concludere che, avendo ottenuto punteggi inferiori, allora hanno un'intelligenza inferiore (tutto questo, naturalmente, a prescindere dalla questione se i test d'intelligenza siano delle misurazioni adeguate di quella misteriosa qualità denominata appunto "intelligenza"). Tutto quel che è possibile concludere è che molte più persone, rispetto al 1950, hanno le qualità richieste per poter accedere a incarichi professionali di tipo manageriale. In realtà, questo non sarebbe possibile, se non vi fosse stato un aumento dell'intelligenza media della popolazione (altrimenti, dove sarebbero stati pescati tutti quei manager?).

In effetti, se ai soggetti del 2000 fosse stato presentato lo stesso test d'intelligenza svolto dai soggetti del 1950, avremmo potuto constatare un sorprendente punteggio medio di addirittura 130 punti (circa), ovvero sarebbero risultati dei geni, ma questo, ripeto, solo in confronto alla popolazione del 1950. I test d'intelligenza, in realtà, vengono revisionati periodicamente proprio per tenere conto di tali differenze, e del fatto che la popolazione sembra diventare di anno in anno "più sveglia", con un aumento di circa lo 0,3% annuo. Tre punti per decennio, e ben trenta punti in più rispetto all'inizio del ventesimo secolo, il che fa sì che chi ha oggigiorno un'intelligenza nella media sarebbe risultato un genio nel 1900, e chi oggi viene classificato, in base al punteggio, come un ritardato mentale, sarebbe risultato normalissimo cento anni fa.

La cosa ha anche delle sgradevoli e drammatiche implicazioni: negli Stati Uniti è considerato incostituzionale condannare a morte una persona che soffre di ritardo mentale (con un QI minore di 70), ma l'essere considerato ritardato o meno può dipendere dalla circostanza, fortuita, di quanto è aggiornato il test al quale si è sottoposti. Se il test è obsoleto, ciò può tradursi in due o tre punti in più, che non fanno molta differenza in quasi nessun ambito, tranne che in sede processuale, dove appunto possono significare la differenza fra la vita e la morte.

Ma da dove viene tutto questo aumento generalizzato di intelligenza, che difficilmente, in un lasso di tempo così breve, può essere attribuito a cause genetiche (le quali caso mai cospirerebbero contro, visto che sono le persone col QI più basso a riprodursi con maggiore frequenza)? La risposta, credo, si trova proprio all'inizio di questo post: la società lo richiede, semplicemente. Questo però significa anche che quello che viene misurato dai test, qualunque cosa sia, è molto più sensibile alle sollecitazioni ambientali di quanto non fosse ritenuto possibile. Il QI non è progettato, infatti, per essere una misura del grado di preparazione culturale di un individuo, ma in teoria dovrebbe misurare qualità mentali che non dipendono dall'educazione ricevuta.

Ma non è poi così difficile comprendere, una volta che ci si rifletta sopra, come invece l'evoluzione di una società, nel suo complesso, porti a delle modificazioni culturali e antropologiche profonde che vanno a incidere anche nelle misurazioni del QI. Si pensi alle condizioni di vita della maggior parte della gente all'inizio del ventesimo secolo. Persone che raramente vedevano pezzi di mondo al di là del proprio paese, e che difficilmente erano in grado di concettualizzare un'esperienza che andasse oltre il loro immediato vissuto. Persone, soprattutto, molto ancorate alla concretezza e al presente, e che quindi potevano avere difficoltà nel ragionamento ipotetico-astratto, che è proprio quel che è richiesto per superare brillantemente un test d'intelligenza. La maggior parte di noi non ha particolari problemi nel fare uso della logica al di là di referenti concreti e specifici e nell'intrattenersi, anche per puro divertimento, in ragionamenti estremamente ipotetici, ma non possiamo aspettarci davvero che un contadino dell'inizio del secolo scorso, per quanto sveglio, messo di fronte alla sequenza di immagini in apertura del post, sia in grado di, o anche semplicemente interessato a, indovinare quale figura sia "logicamente" la successiva (ah, io non l'ho saputo risolvere).

Lo psicologo sovietico Lurija negli anni '70 raccolse alcune interviste a contadini abitanti in remote zone della Russia, che ci fanno forse capire quanto certe abitudini mentali non siano da dare troppo per scontate (citate e tradotte dal libro di James Flynn, What is Intelligence?):


D. Dove c'è la neve tutti gli orsi sono bianchi; a Novaya Zemlya c'è sempre la neve; di che colore sono gli orsi lì?
R: Io ho visto solo orsi neri, e non parlo di cose che non ho visto.
D: Ma cosa implicano le mie parole?
R: Se una persona non è stata lì non può dire niente sulla base delle parole.

D: In Germania non ci sono cammelli; la città B è in Germania; ci sono cammelli nella città B?
R: Non lo so, non ho mai visto un villaggio tedesco. Se B è una grande città, dovrebbero esserci cammelli.
D: Ma se non ce ne fosse nessuno in tutta la Germania?
R: Se B è un villaggio, probabilmente non c'è posto per i cammelli.


Non è che i contadini intervistati da Lurija non riconoscano le implicazioni e non sappiano fare un sillogismo, è solo che il loro atteggiamento pragmatico gli impedisce di prendere in considerazione situazioni meramente ipotetiche e di raggiungere conclusioni sulla base di premesse inconsistenti. Un atteggiamento anche sensato, che però non aiuta ad ottenere buoni punteggi nei test d'intelligenza, e sicuramente non aiuterebbe neanche a superare brillantemente un colloquio di lavoro alla Microsoft (famosa per i suoi quiz assurdi ed estremamente impegnativi durante i colloqui, del tipo: "quanto tempo ci vorrebbe a portare via tutta la terra del monte Fuji, al ritmo di un camion al minuto?").

Ciò che ha liberato le nostre menti dalla schiavitù del concreto e dell'immediato presente, oltre alla educazione di massa, sono stati i nuovi media, i giornali, la radio, la televisione, e oggi i computer, la Rete, e i videogames. E poi la rivoluzione culturale che tutto ciò ha comportato. La maggior parte dei nostri coetanei ha almeno un'infarinatura di conoscenza scientifica, e ha imparato a guardare il mondo attraverso le lenti della mentalità razionale e scientifica. Non è solo il fatto che tutti sappiano leggere e scrivere e compiere operazioni aritmetiche elementari (che già non è poco) ad averci emancipato, ma il fatto che ognuno di noi può avere un'opinione, non importa se giusta o sbagliata, su cose come la politica economica del nostro governo, sulla riforma sanitaria di Obama, sulla politica estera di Israele, e che per formarsi tali opinioni sia costretto a ragionare su quel che dicono giornali e tv, e quindi vedere qualcosa al di à della punta del proprio naso.

E il fatto, anche, che ognuno di noi sia costretto a usare strumenti che hanno un certo grado di complessità cognitiva, e che in molti casi tali strumenti ci accompagnano per tutta la vita, al contrario dell'educazione scolastica che spesso viene dimenticata. Chi impara a usare un computer anche solo per navigare o usare la posta, o per giocare a Tetris, acquisterà delle abilità o delle abitudini mentali che difficilmente perderà, e che sono quelle che possono aiutarlo ad avere un buon QI, e a trovare un lavoro. Se poi l'ambiente di lavoro, a sua volta, è cognitivamente stimolante, il vantaggio acquisito sarà conservato per tutta la vita.

La domanda che ci si deve porre è se si tratti di vera gloria. Acquisito il fatto empirico, pare ormai accertato al di là di qualsiasi dubbio, che ci sono stati questi progressi nel QI (e anche se dobbiamo aspettarci di essere ormai prossimi a un arresto o un'inversione di tendenza, perché non è ragionevole che tali progressi durino per sempre), possiamo davvero parlare di un aumento dell'intelligenza, in un senso non banale (evitando cioè la tautologia per cui l'intelligenza è quel che viene misurato da un test)?

Ne dubito. Non perché non sia contento del fatto che alcuni strumenti cognitivi siano oggi più diffusi e più alla portata di moltissime persone che una volta ne erano escluse, ma semplicemente per il fatto che si tratta pur sempre di mera strumentazione, che può essere usata bene o male. In un certo senso, gli stessi fattori che portano molte persone ad apprezzare, che so io, la bellezza del sistema solare e delle leggi fisiche che ne rendono possibile l'esistenza, portano altre persone a formulare le teorie del complotto delle scie chimiche, o quelle secondo cui il Pentagono non è mai stato colpito da un aereo. Oppure produce gli spettatori di Quark, ma anche quelli di Voyager. Produce i lettori di Gödel, ma anche quelli di Derrida.

Chi formula o chi crede in certe teorie di complotto è stupido, senza possibilità di appello, ma non è detto che risulti tale in un test d'intelligenza. Il vantaggio dei contadini ignoranti e pragmatici di una volta è che non avevano tanto tempo da perdere in queste stronzate, beati loro. Ne consegue che, anche al di là di certi moralismi, non basta fornire certi strumenti in campo educativo, ma è anche il caso di preoccuparsi di come possono essere usati. Non basta insegnare biologia, ma occorre forse trovare il modo per impedire a uno studente di essere sedotto dalle teorie creazioniste, oppure dall'omeopatia. Non basta insegnare economia, ma occorre trovare un modo per cui dalle nostre scuole non escano fuori signoraggisti. Altrimenti dovremmo rimpiangere la stupidità dei nostri antenati.

domenica 10 ottobre 2010

se la verità fosse femmina

Che il rapporto fra i filosofi e le donne sia sempre stato problematico è stato sancito, fra gli altri, da Nietzsche con un celebre aforisma contenuto all'inizio di Al di là del bene e del male: "Posto che la verità sia una donna, e perché no? Non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s'intendevano poco di donne? […]. Certo è che essa non si è lasciata sedurre".
Il povero Nietzsche aveva forse i suoi motivi per esprimersi in tal modo: sappiamo che non fu molto fortunato con le donne. Aveva la brutta abitudine di innamorarsi di quelle degli altri, che è sempre un'ottima ricetta per l'infelicità. Come Lou Salomé, o come Cosima Wagner. Certi biografi sostengono che la sua rottura con Wagner fu dovuta non tanto a motivi filosofico-teoretici, o all'antisemitismo del musicista, come vogliono alcuni, ma a ragioni strettamente personali e anzi di natura piuttosto intima. Wagner rivelò infatti al dottore di Nietzsche di essere preoccupato per l'eccessiva tendenza all'onanismo del suo amico filosofo, abitudine sicuramente favorita dalla presenza di Cosima. Pettegolezzi che Nietzsche non apprezzò particolarmente. Il fato, carogna, volle poi che non solo fosse poco pratico nel sedurre le donne, ma piuttosto sfigato anche in quelle occasioni in cui le frequentava a pagamento, dato che le drammatiche circostanze della sua morte possono essere, in ultima analisi, ricondotte a questo (no, non è stata la vertigine del pensiero nichilista a renderlo folle, è stata più probabilmente la sifilide).
La sua personale infelicità lo rese comunque acuto nell'osservazione delle altrui miserie, come quella di Socrate, esempio paradigmatico del rapporto conflittuale fra il pensiero filosofico tradizionale, maschile, astratto, logo e fallocentrico, e l'altrui sesso. Il filosofo greco, perso nelle sue speculazioni, viene continuamente molestato dalla moglie Santippe, donna stupida, ignorante, ma soprattutto concreta e quindi insopportabile, ragion per cui non stupisce che Socrate, una volta compiuti i doveri coniugali legati alla mera riproduzione, preferisca la illuminata compagnia degli efebi, e si intrattenga con questi in profondi discorsi sulla natura del bene e del male. La nascita stessa della filosofia greca sarebbe quindi dovuta al brutto carattere delle donne, un riconoscimento non so quanto lusinghiero. Certo è che piacerebbe conoscere pure la versione di Santippe.
L'espressione "amore platonico", con la quale si designa appunto il particolare tipo di rapporto che Socrate e i suoi seguaci intrattenevano nei confronti non solo delle donne ma dell'eros in generale, è comunque una delle più fraintese di tutti i tempi. Oggi intendiamo con "amore platonico" un vincolo di grande amicizia e affetto reciproco che però non trova sfogo nel sesso, ma con grande sacrificio viene sublimato in altri modi (qualcosa di simile a quello che faceva Nietzsche, dopotutto), mentre in un certo senso si tratta dell'esatto contrario. L'amore platonico non è un amore senza sesso (ci può essere), ma un amore che non è affatto un amore, perché non comprende il sacrificio, il donarsi all'altro, il vero attaccamento a una persona diversa da sé, ma è un amore dove l'altro è visto solo come uno strumento per la propria elevazione spirituale. L'amore platonico è precisamente quello dove non esiste la passione e il travolgimento dei sensi, perché l'altro è solo un mezzo in vista di un fine personale.
Ma il filosofo ama talvolta presentarsi anche nelle vesti del seduttore, tentando forse di smentire lo stereotipo nicciano, in realtà senza riuscirci. L'affabulatore, l'abile giocoliere delle parole, colui che tenta di circuire la verità così come circuisce le donne per portarsele a letto e poi scaricarle, che ogni giorno apre il giornale e si inventa una battaglia di civiltà in cui lanciarsi e alla quale dare prestigio con la propria intelligenza, e non importa quale causa perché tanto le parole e gli argomenti verranno (in fondo è per questo che viene pagato un filosofo), ben rappresenta certi vizi della nostra epoca. Quella dell'immagine, dove non conta la sostanza, ma l'apparire, dove l'estetica è la disciplina più influente e seguita, ben prima della teoretica e della morale, dove l'atteggiarsi è tutto, e la camicia bianca sbottonata vale più di mille concetti. La tristezza di tutto questo, di questa insostenibile leggerezza, questa finta disinvoltura, fa appunto rimpiangere la serietà di un Socrate, che almeno nutriva un disprezzo genuino per le cose mondane.
"Un filosofo sposato è un personaggio da commedia", sostiene dunque ancora Nietzsche. Di tutti i personaggi della storia della filosofia, a me ne viene in mente solo uno che abbia avuto un rapporto, pare, felice e gratificante con le donne. Si tratta di Paul Feyerabend, il filosofo del relativismo, autore di Contro il metodo, famoso anche per essere stato citato da Ratzinger a proposito di Galileo Galilei (l'astuzia della ragione: il più grande avversario del relativismo che cita proprio Feyerabend). Nella sua autobiografia, scritta pochi mesi prima della morte, e proprio durante la malattia che lo ha ucciso, Feyerabend racconta fra le altre cose di come abbia partecipato come ufficiale nazista alla seconda guerra mondiale, riportandone una ferita alla gamba che gli avrebbe reso impossibile, per il resto della sua vita, camminare senza l'uso di un bastone. Un'altra cosa gli era impossibile a causa della ferita, e cioè proprio una normale attività sessuale, ma questo non gli impedì mai di innamorarsi e di essere amato.
L'essenza del pensiero filosofico di Feyerabend, in estrema sintesi, era "tutto va bene". Intendendo che non esistono ricette per scoprire la verità, che nessun filosofo potrà mai arrogarsi la pretesa di dire a uno scienziato, o a qualsiasi persona comune se è per questo, come dovrebbe pensare. Si definiva un "anarchico della conoscenza". Io, a dire il vero, non ho mai avuto grosse simpatie per il pensiero relativista, ma si potrebbe opinare, in primo luogo, che Feyerabend fosse davvero un relativista (dubitava della stessa nozione di verità, o dei percorsi tradizionalmente battuti per cercare di raggiungerla?), e in secondo luogo che facesse sul serio. Aveva un atteggiamento scanzonato nei confronti di tutto, e in primo luogo nei confronti di se stesso. Sinceramente autoironico, proprio come Socrate, più di Socrate, era perfettamente consapevole di recitare un personaggio, di essere un troll che si divertiva a violare ogni tabù. Difendeva l'astrologia, difendeva il voodoo, difese anche la Chiesa e Bellarmino contro Galileo (consapevole di dare scandalo). Lo fece non perché convinto che Galileo avesse torto o l'astrologia avesse davvero una qualche validità, ma perché temeva che la Scienza prendesse il posto della Religione, come unico e privilegiato sistema di riferimento.
Un atteggiamento pragmatico, non assolutista, quindi, che alla fine non può che risolversi in una maggiore saggezza pratica, nel rapporto col mondo e soprattutto con gli altri. Feyerabend è uno dei pochi filosofi che stanno simpatici a mia moglie, forse perché nella sua autobiografia, e soprattutto negli ultimi capitoli, non parla altro che di sua moglie (una giovane studentessa italiana con la quale si era trasferito da Berkeley a Roma), con entusiasmo quasi infantile. Una persona cattiva potrebbe persino dire che si era un po' rincoglionito. E le sue ultime parole parlano di amore nei confronti dell'umanità, un'umanità che si intuisce fatta di persone in carne e ossa, e non assunta come valore astratto.
E poi per una foto, quella che mostra il "filosofo al lavoro" (quello che io dovrei fare un po' più spesso, forse).